Il delta è l’intervallo temporale o spaziale che intercorre tra due punti: non divide, ma mette in contatto realtà altrimenti distinte.
Lo Studio Formafantasma ha scelto questo nome per il suo progetto dedicato a Roma proprio perché esso non è incentrato su un singolo momento della complessa stratificazione fisica e storica della città eterna, bensì su un ponte temporale. In questo intervallo epoche e sedimentazioni, come layer di trasparente trasversalità, compongono una nuova realtà. Quella che emerge nelle opere della collezione non è, infatti, una forma fine a se stessa, ma il risultato di un’indagine su quella che Kubler aveva definito la “forma del tempo”. Affiora così una dimensione più antropologica che semantica, fatta di intuizione tanto quanto di ricerca e ragionamento. Una modalità consolidata per i Formafantasma che qui affrontano per la prima volta non tanto il tema dell’antico, quanto quello della preesistenza dell’oggetto di memoria con una gittata ampia sulle affinità del presente. Il delta si apre e si chiude tra la Roma del passato remoto - quella etrusca, o repubblicana con i suoi oggetti quotidiani nei quali il votivo e il quotidiano si fondono - e la città del passato prossimo - quella della Metafisica razionalista, con l’archetipo della geometria scandito dal ritmo del pieno e del vuoto, della luce e dell’ombra.
Piccoli utensili da tavola seguono un profilo che è intriso di storia e, contemporaneamente, è atemporale. Qui non si tratta di replicare al vero come lo studente, di collezionare come il curioso o di conservare come l’antiquario. L’attitudine è quella dello storico che ricerca il proprio personalissimo ritratto del tempo, rilevando nella sequenza biologica del divenire la forma del persistente e del durevole. L’ombra che si staglia di questo paesaggio sulla tavola potrebbe essere quello di una scultura, di un monumento, di un’architettura o, più semplicemente, della sacralità di una funzione essenziale come l’esistere nel presente. Un mobile contenitore mantiene e conserva, serve per classificare e ordinare, ma è anche presenza fisica dell’interno. I volumi puliti sono quelli delle pellicole in bianco e nero, del cinema che già ha saputo cogliere di Roma la vocazione all’eterno, all’andare oltre con quella sua beffarda irriverenza e sprezzatura del deperimento.
Complice di tutto e più di ogni altra materia possibile: la luce. Quella di Roma i Formafantasma hanno imparato a conoscerla nel suo mutamento, nel passaggio stagionale. E proprio per questo ne hanno colto l’invariante, ovvero la collaborazione stretta con la sua architettura. La luce di Roma non è mai meramente naturale, neanche quando è puro raggio solare; c’è sempre una mediazione di rifrazione, un pieno che ne intercetta la diffusione, un vuoto che ne esalta la purezza, un colore materico che ne amplifica una tonalità. Ecco allora che anche il progetto di una lampada diviene quello di un mezzo che racconti il più ampio senso della luce di un luogo agli occhi di un autore. E’ così che quando l’intera architettura si fa meridiana, come nell’oculo del Pantheon che rende visibile il raggio nella fisicità di un disco dorato, Andrea e Simone progettano uno strumento che restituisce quel cerchio luminoso in un interno. E’ quasi come se quell’oggetto divenisse lo specchio di una grande macchina tecnica pensata per donare la magia dello spettacolo pensato dagli uomini del passato per quelli del presente. E se c’è la luce che riflette, ci deve allora essere anche il suo opposto, quella che oscura giocando a scomparire dietro un’eclisse apparente. Anche le materie prime parlano chiaro: c’è il metallo che rispecchia e restituisce vibrazione al contesto intorno, ma anche la pietra che assorbe e, se rastremata come nelle colonne antiche, rende la luce vibratile e misteriosamente inafferrabile.
Ma nulla sarebbe tale se non ci fosse l’uomo col suo gesto che attiva, modula, interviene e, talvolta, gioisce. Le lampade si accendono e spengono con un movimento che dona inattesa funzionalità a una geometria antica e assoluta; ma anche con un piccolo contatto in grado di far danzare luci mobili che hanno voglia di non prendersi, in fondo, troppo sul serio e strapparci un sorriso divertito. Perché, a guardare con attenzione e senza preconcetti, il ritratto del tempo può essere più felice della singola somma dei suoi istanti migliori. Domitilla Dardi, marzo 2016
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